Sabato 10 aprile 2010, ore 17.00 si inaugura la personale antologica ‘Ugo Guidi’ a cura di Franco Basile

image_pdfimage_print

cache_194d8721736f745d388d69d112de08bc_52af1040e37e34b93551403a45fc0578

 UGO GUIDI

Nato a Comacchio nel 1923, ho trascorso l’infanzia a Ferrara dove la famiglia mi portò quando avevo tre anni. La prima abitazione fu in via Frescobaldi a fianco di una caserma di artiglieri a cavallo. Di fronte vi era una villetta borghese da cui quotidianamente veniva ripetuto il brano di Puccini "Un bel dì vedremo".

Un piccolo balconcino era il mio osservatorio; qui accorrevo al fragore sull’acciottolato dei carri militari o del carro funebre diretto a un deposito dopo un mesto trasporto. ln questa città ho avuto le prime emozioni dalla musica. Durante le abituali passeggiate pomeridiane con mia madre, verso l’ora del crepuscolo, sovente nelle contrade risuonava cadenzato il motivo della marcia funebre di Sigfrido: giungeva da un corteo che accompagnava all’ultima dimora un defunto della nobiltà. Ricordo il grigio livido dei volti dei cocchieri che sbucavano sotto ampie feluche e giubbe nere strette al collo da tanti alamari.

Le note cupe e martellanti rimbalzavano tra i muri delle basse case; appena mia madre udiva questi lugubri toni mi afferrava per mano e quasi impaurita mi trascinava per allontanarmi.

Ho poi sempre accolto quella musica con brividi di dolce sofferenza.

Il Montagnone, la Darsena, erano le mete domenicali con mio padre e un suo amico pittore per fare qualche studio. Io ero soltanto osservatore anche quando mio padre, tanto appassionato alla pittura, organizzava con l’amico serate di studio alla luce di una “solare”. Avrò certamente fatto le bizze per andare a letto, ma era tanta l’attrazione che mi sollevavo sulla punta dei piedi per osservare gli “oggetti modello” e confrontare questi alle forme che venivano espresse su quelle tavole di compensato.

Così in casa c’era già l’atmosfera, gli odori e gli strumenti che alimentavano la mia interna passione. I libri erano rari, più accessibili le cartoline dei capolavori, e mio padre conservava le pagine dedicate alla pittura dell’unico rotocalco a colori, “Il mattino illustrato”. I giganti d’allora mi facevano sognare. Antonio Mancini era tra i più ampiamente rappresentati, poi Gemito, Boldini, Michetti, De Nittis, Favretto ecc..

Non so come dopo tante vicissitudini, guerra, traslochi, sfollamenti, sia riuscito a conservare ancora una copertina di notiziario dell’EIAR che riproduce in seppia il ritratto di Boldini che raffigurava Verdi col cilindro: connubio emblematico del nostro Ottocento. Già tra i doni apparivano piccole scatole di matite colorate e minuscole tavolozze di cartone con incollati sopra discoidi di pietrosi e opachi acquerelli.

Un bel giorno approfittando d’esser solo in casa mi impossessai della scatola dei colori di mio padre. Gli odori di olii e resine mi inebriarono e realizzando il mio sogno pasticciai su una tavolozza mettendo a soqquadro pennelli e tubetti. Questa mia trasgressione che fece infuriare mio padre, tanto ordinato e geloso dei suoi arnesi, servì a richiamare l’attenzione dell’amico pittore. Così pian piano si convenne che, se fossi veramente rimasto sempre di questa idea, un giorno sarei stato avviato al Liceo artistico di Bologna. Il trasferimento della famiglia, per ragioni di lavoro di mio padre, mi facilitò, ma i tempi di studi che mi separavano dalla prova di ammissione al liceo furono noiosi e interminabili.

Ecco finalmente superate le prove, ma con la tremarella perché Pizzirani, durante gli esami, sorvegliava alle spalle ed esprimeva giudizi ad alta voce; se l’esaminando titubava nel comporre una tinta tuonava: “Cos’è quella broda di fagioli!”.

Svolgo regolarmente gli studi liceali, con lusinghiere segnalazioni, incoraggiamenti e premi. Sono ammesso al Corso di decorazione all’Accademia di Belle Arti, dove ebbi incontri con artisti pur sempre dell’Accademia ma non imposti dal corso: Protti, Tomba, Bertocchi, Drei, Cervellati e altri.

La guerra! Dolorosa interruzione degli studi: la mia abitazione a pochi passi dall’Accademia distrutta, mio padre la scampa per miracolo. Deve restare a Bologna per il lavoro, ma sistema la famiglia in campagna in un residuo di proprietà a San Giuseppe a cinque chilometri da Comacchio, dove resteremo per quattro interminabili anni. Paure, ruberie, violenze e sempre la nostalgia della mia scuola, dei miei amici che sentivo tanto lontani. È impossibile concentrarsi, segno qualche appunto a pastello e a matita.

Alcuni di questi modesti saggi sottoposti a Romagnoli e a Morandi mi procurano passaggi ad honorem. l collegamenti con Bologna sono difficili e travagliati fino alla cessazione delle ostilità.

Finalmente il ritorno agognato a Bologna, alloggiati in coabitazione tra ristrettezze e disagi, ma con tante speranze e il conforto di rivivere accanto ai maestri stimati.

Gradualmente, a piccoli passi, si riprende a vivere, si trova sistemazione in un piccolo appartamento al quartiere Bolognina, ove frequentemente venivano a trovarmi Protti e Romagnoli.

Riesco così a produrre le prime nature morte.

Mi affidano qualche opera di restauro, eseguo, su commissione, la copia del “Ritratto di architetto” di Luigi Crespi. Inizio anche l’attività ritrattistica. Faccio qualche comparsa nelle prime esposizioni sindacali. I miei amici mi seguono, mio padre, per favorire gli incontri con Protti, mi compra una bella bicicletta, così da via Franco Bolognese percorrendo altre strade (tutte intestate a pittori), si raggiungeva quel sentiero ameno che costeggiava il Canale Navile. Su un lato piccole basse case affiancate l’una all’altra e di tanto in tanto la chiusa. Per il suo aspetto d’insieme avevamo battezzato la zona “Olanda”. Protti si vantava della sua “fuori-serie”, cerchioni di legno, freno contropedale, e pur considerando superiore il suo velocipede ammirava la mia bici per la linea, e forse perché la tenevo sempre lucida e brillante.

Si faceva qualche sosta e adagiati sull’erba si commentavano vicende d’arte; talora Protti sfilava dalla sua giacca a vento pagine o ritagli di giornale ove qualche eroico critico denunziava scandali e mostruosità delle biennali. Le firme? Bartolini, Buscaroli, Borghese, Vigolo, Morelli.

La così detta Liberazione non aveva liberato l’arte da imbrogli e profittazioni: io dicevo con amarezza che dopo la burrasca erano rivenuti tutti ancora a galla.

Protti perde la salute e un male inesorabile lo finisce nel 1949. Con un gruppetto di amici si organizza, patrocinata dalla “Francesco Francia”, una mostra celebrativa.

Diplomato dall’Accademia resto in quella sede “assistente volontario” fino all’incarico per una cattedra al Liceo nel 1952.

Inizia così la mia carriera di insegnante, ininterrotta fino al 1982.

Nel 1952 mi viene affidato l’incarico di eseguire due pitture murali per il Palazzo delle Poste di Reggio Emilia. Bozzetti, studi, esecuzione, due anni di lavoro con qualche interruzione per ragioni di cantiere. Svolgo contemporaneamente gli impegni dell’insegnamento. Negli scampoli di tempo lavoro in studio prevalentemente coi pastelli che non danno tanti problemi come i colori a olio. Di questi anni sono le due pale d’altare per la chiesa di Cristo Re a Bolzano, la Santa Teresa in San Martino a Bologna, diversi cartoni per mosaici, nel 1958 quello per Monghidoro.

Nel 1951 ricevo la nomina di Membro dell’Accademia Clementina ed entro nel consiglio direttivo della “Francesco Francia”. Mazzocco, indimenticabile amico degli artisti, dopo insistenti e affettuose pressioni, mi convince a fare una personale a Milano. Interpella varie gallerie: scelgo la Gussoni per mostrare cinquanta opere (non in vendita). Mi preme soltanto avere giudizi e pareri da un ambiente in cui ero completamente sconosciuto. Accoglimento più che favorevole, si complimenta anche Carlo Carrà che esponeva di fronte, all’“Annunziata”.

Assieme all’amico Mazzocco mi dedico alla promozione di tutte le mostre che altri non avrebbero pensato. Intensa l’attività ritrattistica a cui si aggiunge negli anni Sessanta quella paesaggistica. Mi dedico con passione alla grafica provandomi in ogni tecnica. Matrici e stampe sono tutte di mia personale esecuzione. Attualmente ho risvegliato appassionanti interessi per la scultura.

Nel 1990 si tiene la prima mostra a Bologna alla Galleria Marescalchi. Sul finire del 1995, in occasione della pubblicazione di una mia monografia, espongo alcune opere in Corte Isolani. Altre esposizioni presso l’ente dell’Opera Pia, a Palazzo Ratta e a Palazzo Bellini (Comacchio).

Ugo Guidi

Il maestro Ugo Guidi morirà a Bologna il 24 dicembre 2007

Una rassegna postuma si è tenuta nel febbraio del 2008 a Parigi alla “Galerie de l'Europe”.

La Galleria PivArte di Bologna ha organizzato una mostra di Ugo Guidi sempre curata da Franco Basile dal 24  ottobre  2009  al 21  novembre  2009. 

 

 Nella rincorsa degli anni lo rivediamo in quelle stanze entro le quali costruiva, giorno dopo giorno, lembi di cielo da apparecchiare sulla cima delle colline. Aveva il tempo e tutte le compulsioni della memoria a portata di mano, il mondo gli entrava dalla finestra, cose e persone contrassegnavano le ore dell'atelier. Dal terrazzo coglieva i sobbalzi delle stagioni così come faceva quando, giovanetto, viveva con la famiglia in una zona di Bologna dove scorreva il canale Navile. Già allora, sull'onda di una stupita indagine, giocava sugli effetti di luce e ombra in rapporto a contrasti cromatici che gli offrivano un quadro del vero mediante riposate accensioni: un fare, che lo manteneva estraneo alla connotazione materiale della visione, ossia alle modalità di relazione con il referente reale. Erano gli anni Quaranta, la realtà sembrava scorrere lieve per farsi riprendere in pose multiple assieme a visioni che, nel riflettersi nell'acqua, assumevano aspetti inconoscibili …. 
L'ingranaggio dei giorni faceva scattare le sensazioni di sempre, il sole che nasceva e che moriva, il cielo stellato e l'aspettativa delle albe. E tra un ricordo e l'altro, ecco una delle ultime scene allestite con la complicità delle ombre che si allungavano dietro la finestra dello studio. Guidi sembrava voler censire le piante che attorniavano una scultura raffigurante una donna sdraiata. In lui, una piega lievemente amara si confondeva a un accenno di sorriso. Il sole stava calando ed era come se il tramonto fosse la sua proiezione fisica e mentale, il disegno di una parabola esistenziale sospinta verso l'epilogo. In lontananza, al di là dei colli, si levava un inno scarlatto che le nuvole palleggiavano in una prateria dalle purpuree estensioni. Fu il nostro ultimo incontro: in quel momento il pittore sembrava preso da pulsioni sotto traccia, come la filigrana di un'inquietudine accompagnata a una nascosta malattia di vita. 
 
Franco Basile 


Potrebbero interessarti anche...